Rodari Giacomo è venuto a mancare nel 2003 e, vuoi per la mia giovane età, non ho mai trascritto i suoi ricordi di guerra. Allora spronato da mio cugino Enrico mi decido a coinvolgere mio padre Modesto figlio di Giacomo. Riproponiamo qui domande e risposte tra papà e figlio, buona lettura. Matteo
Di che reggimento eri papà?
Ero nei Lupi di Toscana, 77° reggimento, richiamato in servizio nel dicembre del 1940. Mi ricordo un particolare presso la Caserma Randaccio di Brescia: nel piazzale, in una gabbia, erano allevati in cattività due lupi a simboleggiare la Divisione. Mentre eravamo in Albania, nel gennaio 1941, e noi eravamo impegnati in aspri combattimenti, i due lupi, per cause non ben definite, morirono. La gente del posto mormorò che fu un segno funesto… infatti noi della Lupi di Toscana stavamo facendo la stessa fine in Albania.”
Cosa ricordi del viaggio verso l’Albania?
Durante quel viaggio vidi il mare per la prima volta. Mi trovavo a Brindisi ed era ormai l’ultimo giorno dell’anno del 1940, quando appunto venni imbarcato sulla Piemonte verso Valona. Ma durante quel viaggio che mi portò in Albania non fu solo il mare che vidi per la prima volta ma anche l’uva: frutto sconosciuto a Valbondione… ricordo delle grandi abbuffate!
Com’era l’Albania e la sua gente? Chi erano i tuoi commilitoni?
Sbarcammo a Valona il 31 dicembre del ’40 e la mia attenzione venne catturata immediatamente dai minareti dove una persona urlava in una lingua sconosciuta, ci spiegarono poi che era il Muezzin che serviva, come le nostre campane della valle, a richiamare la popolazione a pregare. Ricordo poi la gente albanese con uno strano abbigliamento… ne fui talmente colpito che comprai una foto che ritraeva una famiglia con abiti del posto.
Conoscevi qualcuno dei tuoi commilitoni?
Alcuni miei commilitoni erano compaesani o conoscenti della valle Seriana. C’erano il Paganoni Egidio e il Francesco Rodari, il Bertuletti di Gandellino, il Bonacorsi Giovanni morto sul Golico… con l’avanzare delle battaglie ed il giungere dei rimpiazzi mi accorsi che stentavo a fare amicizia con altri soldati. Un giorno con l’altro si potevano perdere gli amici del giorno prima… perdere un amico ti rendeva vulnerabile e ti indeboliva nel morale.
C’è qualcosa che t’ha permesso di sopravvivere alla guerra?
Mi è andata bene, la fortuna m’ha aiutato ma senz’altro anche la tenacia e la resistenza sono state importanti. La vita di montagna insomma. Inoltre ho reagito ad ogni avversità… ho visto molti soldati presi dal panico, restare immobili e morire.
Durante gli attacchi greci quale era la paura più grande?
Le pallottole non le consideravamo nemmeno… anche se un giorno mi trovai nel bel mezzo di un attacco greco sdraiato a pancia all’insù e sentii caldo alla pancia, credevo di essere stato colpito ma girandomi sul fianco vidi che un proiettile mi aveva portato via la fibbia dei pantaloni ma fortunatamente nemmeno un graffio! La paura di morire veniva dal cielo… quando sentivi i colpi in partenza: colpi dei mortai e dell’artiglieria con le loro devastanti schegge che venivano a cercarti ovunque.
Hai mai avuto un contatto coi greci?
No ma ricordo nitidamente voci di fuoriusciti italiani che combattevano con i greci e che ci invitavano ad arrenderci, anche chiamandoci in bergamasco per consegnare i nostri comandanti… in loro risposta sparavamo.
Com’erano i rapporti coi volontari delle Camice Nere?
Eravamo affiancati da un battaglione di camicie nere che facevano parte della 14 Legione d’Assalto: molti giovani e spavaldi, il loro ufficiale un signore di Ponte Nossa (Ravasio Felice classe 1899, morto il 4 febbraio 1941 zona Bubesi) al grido di Viva l’Italia guidò un attacco ad una cresta rocciosa ma appena arrivato in cima lo vedemmo ribaltare indietro, falciato dalla mitragliatrice, conoscevo bene suo padre perché portava la farina a Valbondione col camion.
Hai mai pensato di arrenderti ai greci?
Noi pesta pacia (pesta fango – fanti) un giorno sul Tabajan ci trovammo in una brutta situazione… eravamo bersagliati da colpi di mortaio, faceva un freddo micidiale, eravamo zuppi dalla pioggia di giorno e dalla neve di notte, non mangiavamo qualcosa di caldo da giorni, avevamo fatto marce lunghissime nei giorni addietro e non ce la facevamo proprio più… io e il mio servente alla Breda 37 decidemmo di arrenderci. Tolsi la bacchetta del mio fucile ’91 e vi legai il mio fazzoletto bianco (che di bianco non aveva più nulla…) ad un tratto, alle mie spalle, comparve un nostro superiore con la pistola in mano che ci disse: “Cosa fate Lupi! Ci ritiriamo!” Resa la nostra Breda inutilizzabile iniziammo una massacrante ritirata sotto incessanti colpi di mortaio: cadeva 1 colpo ogni 5 metri… un inferno per tutto il giorno. Ad un tratto il mio compagno Paganoni Egidio venne colpito ad una coscia da due schegge: i servizi sanità non sapevamo dove fossero. Durante il ripiegamento ci eravamo sparpagliati per non offrire un facile bersaglio così dovetti fare qualcosa io. La prima scheggia riuscii ad estrarla a mano ma la seconda era in profondità e non riuscendo a toglierla decisi di portarlo verso valle dove forse avrei trovato il servizio sanità, ci vollero 2 giorni. Mentre scendevamo da qualche parte sul Tabajan si fece sera e ci avvicinammo ad una casa in cerca di riparo. Entrammo e trovammo un graduato delle Camice Nere che perdeva sangue dalla bocca, dalla gola e bestemmiava… richiusi la porta e cercammo riparo lungo il canalone che si apriva sotto di noi ma appena allontanati sentimmo un colpo di pistola provenire da dentro la casa… il giorno dopo arrivammo al servizio sanità e il mio compagno si salvò.
Dopo la battaglia sul Tabaian e la ritirata cos’avete fatto?
Ci fecero tornare verso Valona a Mavrova per riorganizzarci… eravamo rimasti in pochissimi rispetto a quelli partiti a dicembre da Brescia. Arrivarono rinforzi e divise nuove. Ricordo che partecipai al picchetto d’onore nella piana di Lepenice per l’arrivo del Duce. Venne in Albania per incitarci a sferrare il famoso contrattacco di marzo così da riprendere il terreno perso… al suo passaggio le gambe tremarono, incuteva terrore.
E voi della Lupi dove vi mandarono a sferrare il contrattacco di marzo?
Ci mandarono sul Golico, montagna vicino a Tepelene, a picco sopra la Vojussa e coprivamo tutta la cresta che da quota 1143 scende a ponte Dragoti. Sopra di noi fino alla vetta quelli della Julia. Ricordo che, arrivato nei pressi del ponte, dietro un costone ci accampammo. La mattina il mio comandante mi ordinò di andare a prendere l’acqua per farsi la barba, raggiunto il fiume mi accorsi che c’erano numerosi corpi di soldati colpiti dai cecchini greci mentre cercavano di riempire le loro borracce.
Com’era il Golico?
Furono giornate di duri combattimenti, di assalti e ritirate…inoltre iniziava a fare caldo di giorno e d’acqua sul Golico non ce ne era così, a turno, di notte, dovevamo scendere con le borracce per prendere l’acqua alla Vojussa sperando di non essere visti. Una notte sul greto un mulo morì sotto i colpi della mitraglia greca: senza pensarci due volte a turno la notte scendevamo sul greto del fiume per staccarne qualche pezzo da mangiare così nell’arco di pochi giorni il mulo venne completamente divorato da noi soldati.
Sul finire della guerra ricevemmo il cambio dagli alpini forse ancora della Julia. Nel mentre scendevamo da un ripido sentiero il primo alpino che incontro è un ragazzo di Villa D’ogna detto Pasquali’; lo conoscevo perché in tempo di pace saliva sulle montagne di Valbondione ( Passevra ) con le mucche. Lo vedo bello pulito e carico che sale lentamente ed io invece vestito con quei pochi stracci logori da giornate di combattimento. Lo chiamo ma non mi riconosce, mi chiede chi sono, gli dico: “sono il Menega di Valbondione!” Risponde lui: “No, non sei il Menega!” Dopo aver capito che sono davvero io mi chiede: “Com’è su li?” gli rispondo: “l’inferno.” Si mise a piangere e non voleva più salire. Gli dissi di non girarsi e di continuare a salire perché altrimenti l’avrebbero fucilato… si salvò dalla guerra e ci rivedemmo sui pascoli in montagna.
Cosa ricordi del rientro in Italia?
Al rientro in Italia ci mandarono in licenza e poi nel 1942 in Calabria. Proprio mentre mi recavo all’ospedale militare di Catanzaro incontrai il Sergente Maggiore Rodari Francesco, mio compaesano e cugino di quella che poi sarebbe diventata tua mamma. Francesco ed io eravamo nello stesso reggimento ma in battaglioni diversi. Lui si era guadagnato i gradi per azioni di guerra già nel 1939 con l’occupazione dell’Albania, nel 1940 sul fronte francese e poi quello Greco-Albanese. Era un ardito… Tant’è che fu scelto e partecipò ai corsi per Guastatore di Fanteria. Lo incontrai per caso, ci salutammo e gli chiesi dove stesse andando, mi rispose: “Mi sono offerto volontario per l’Africa, a casa non c’è nemmeno la farina per fare polenta!”. Non lo rividi più, sono stato l’ultimo di Valbondione a vederlo vivo… Il 2 dicembre del 1942 mentre era in nave verso la Tunisia, il piroscafo Aventino sul quale viaggiava il I Battaglione Guastatori di Fanteria, venne affondato da navi inglesi nella zona del banco di Skerki. Francesco è ancora oggi disperso nel Mar Mediterraneo.
Ma perché eri andato in ospedale a Catanzaro?
A causa del poco cibo e forse anche degli spaventi subiti…persi completamente tutti i denti e questa però fu la mia fortuna perché dichiarato inabile ed esonerato, evitai così il resto della guerra.
Il nonno Giacomo rientrò dalla guerra e visse i suoi anni in serenità, si sposò con Maria e insieme ebbero tre figli ed arrivarono 7 nipoti. Non volle nulla di più se non vivere tra le montagne accudendo le sue mucche.